Oggi più che mai gli antifascisti, non avendo più niente a cui appigliarsi, si rifugiano nella retorica trita e ritrita nella speranza di salvare il salvabile.
Le varie piazzate a cui abbiamo assistito, in primis gli slogan urlati agli eventi mondani come “viva l’Italia antifascista”, dimostrano ancora una volta l’isteria di un pensiero al tramonto.
Dire però che l’Italia è antifascista ha senso e ne subiamo le conseguenze ogni giorno.
In primis, viene esaltato lo spirito democratico, che però dimostra subito la sua ambivalenza: fu uno spirito ritrovato dopo la parentesi del ventennio oppure una cosa nuova figlia della lotta partigiana?
Le risposte sono entrambe utilizzate a seconda del contesto. Tuttavia, ed è un dato di fatto, se l’antifascismo si poneva l’obiettivo di unire il popolo in un pacchetto di valori (giusti o sbagliati che fossero), la sua monopolizzazione da parte della sinistra social-comunista prima e demoliberale poi, ha inevitabilmente portato a considerare Bella Ciao e le pastasciutte come fenomeni divisivi, non tanto tra fascisti e antifascisti ma tra progressisti e resto del mondo. Non è colpa del centrodestra, quindi, se l’antifascismo è divisivo, ma dei suoi custodi stessi.
I medesimi che usano l’antifascismo per attaccare chiunque non aderisca al pensiero unico, che oggi definiamo woke, relegando in un generico calderone fascista anche aspetti comuni ad altre ideologie, comunismo compreso.
E per le battaglie sensate, l’antifascismo diventa anche lo scudo per giustificare il proprio essere bastian contrari ad ogni cosa. Nelle proteste contro questa o quella iniziativa, in particolar mondo i progetti di nuove infrastrutture, sentiamo slogan inneggianti alla resistenza e vediamo bandiere nerorosse (collegando astrusamente i partigiani al ponte, alla strada o alla ferrovia che non si devono fare), proteste che sono cavalcate dalla parte avversa di turno, quasi sempre la sinistra , che blocca tali costruzioni senza alternative valide, rendendo l’Italia stagnante, salvo poi ammirare le opere oltre le Alpi con quel tocco esterofilo che è squisitamente antifascista.
E se il confronto democratico e il progresso (vero) sono impediti dall’antifascismo, la questione sociale non è esente. Esaurita la spinta data quanto c’era prima del ’45, abbiamo avuto una prima repubblica in mano ai tre principali partiti, poi due, più inclini alla lotta tra loro che al benessere nazionale.
E quando su di loro si abbatté la scure di tangentopoli e del crollo del blocco orientale, ecco gli anni del berlusconismo e un ritorno al liberalismo, le grandi imprese pubbliche, IRI in testa, trasformate in carrozzoni succhiasoldi che invece di essere sistemate sono state sciolte.
L’Italia antifascista doveva essere europea, quindi ecco Schengen, l’euro, le frontiere aperte. Gli immigrati arrivano, i laureati fuggono, ma festeggiano lo stesso il 25 aprile da cui è nata quell’Italia che hanno rinnegato (e non sempre per motivi economici).
Chi prova a protestare contro la situazione è additato come populista, altro termine generico in cui infilare la giustizia sociale, nel frattempo si guarda a Germania e Francia come modelli di virtù. Proprio quei paesi che l’Europa la comandano, mentre altri come noi la subiscono.
E mentre il mondo va avanti, noi ancora giochiamo a fare i partigiani contro un regime che non c’è più, quindi bisogna inventarlo, vedendolo nella destra liberale o nella stragrande maggioranza degli italiani che fascisti non sono ma nemmeno antifascisti; però, da come ragionano i detentori della verità, o si è antifascisti convinti oppure si è fascisti, poco importa se la dottrina economica, politica, sociale e morale di quell’ideologia è sconosciuta, o con noi o contro di noi.
E l’Italia rimane nel vero medioevo, che non è quello della famiglia tradizionale, della Patria, della cristianità, ma quello dell’oscurantismo antifascista. Un cancro da estirpare ma per cui, fortunatamente, esiste la cura.
Lorenzo Gentile
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