C’è una ferita nascosta, profonda, che attraversa la coscienza nazionale italiana dal 1945 in poi. È una ferita che non sanguina, ma che brucia ancora oggi, fatta di silenzi imposti, di ricordi censurati, di affetti taciuti. In nome della “liberazione”, si è raccontata una sola verità: quella che ha dipinto la Repubblica come il baluardo della libertà, della giustizia, dei diritti universali. Ma quale libertà è mai quella che impone l’oblio? Quale giustizia quella che obbliga a rinnegare le proprie radici? E che diritti può garantire uno Stato che tollera solo chi si conforma?
Dopo la caduta del fronte, uomini e donne che avevano servito lo Stato – nel Partito Nazionale Fascista, nella Repubblica Sociale Italiana – si trovarono improvvisamente colpevoli, non per ciò che avevano fatto, ma per ciò che erano stati. Alcuni erano idealisti, altri semplici impiegati, funzionari, lavoratori che cercavano una stabilità, una casa, una pensione, una dignità. Molti avevano creduto sinceramente in un’idea di ordine, di armonia sociale, di spirito nazionale. Altri si erano affidati al sistema corporativo come tutela dei propri diritti di lavoratore e per assicurare ai propri figli un futuro. Tutti, indistintamente, vennero travolti dalla macchina dell’abiura. Dovevano tacere, dissimulare, nascondere. Dovevano vergognarsi del loro passato.
Il nuovo Stato, che si proclamava paladino della libertà di pensiero e della diversità culturale, eresse – anno dopo anno – un muro invisibile ma invalicabile: chi non si allineava al dogma antifascista veniva messo ai margini, silenziato, sfigurato dalla pubblica opinione. Non esistevano più né cittadini né anime libere, ma solo due categorie: i redenti e gli infami.
Eppure, la Costituzione – nella sua forma scritta – non vieta affatto di ricordare, di pensare, di credere. L’articolo 21 tutela la libertà di espressione, e la XII disposizione transitoria si limita a impedire la ricostituzione organizzata del PNF. Nulla vieta di custodire nel cuore un affetto, un ricordo, un’idea. Nulla, almeno sulla carta.
Ma la realtà è ben diversa. Lo Stato non reprime con la forza, ma lascia fare; una sorta di “laissez-faire” di stampo ideologico anziché economico come la sua etimologia richiamerebbe. Tace, acconsente, mentre l’opinione pubblica si fa carnefice. I tribunali del popolo moderno sono i salotti televisivi, le redazioni, le aule universitarie, i social network. È lì che si celebra ogni giorno il processo permanente a chi osa pensare fuori dal recinto. E l’accusa non ha bisogno di prove: basta un simbolo, una parola, una foto in bianco e nero. Basta non inginocchiarsi alla narrazione dominante.
Chi ha nel cuore la memoria della rivoluzione fascista – anche solo come nostalgia, come visione di un mondo più ordinato, più umano, più spirituale – è costretto a vivere nell’ombra. Non infrange alcuna legge, ma infrange un codice non scritto, il più feroce di tutti: quello dell’uniformità morale. E per questo viene punito. Non con la galera, ma con l’esclusione. Non con i tribunali (…) ma con il silenzio. Una condanna all’invisibilità, che ha il sapore di una vendetta storica mai finita.
È questa la più tragica delle contraddizioni: uno Stato che si proclama libertario, ma accetta – e in fondo alimenta – una cultura della discriminazione ideologica, che tollera tutto, tranne chi non si pente.
La libertà, quella vera, è concessa solo a chi rinnega. A chi si inginocchia, a chi dimentica.
E allora, che razza di libertà è mai questa?
Gianluca Mingardi
Grazie ancora una volta alla penna di Mingardi che in brevi tratti dipinge la nequizia profonda di cui è intrisa ancora oggi questa povera Italia.
La morte della Patria Comune.