La cancellazione del concerto del direttore d’orchestra russo Valery Gergiev rappresenta uno degli esempi più lampanti e desolanti di come la cultura, ormai da tempo, venga ridotta a terreno di ritorsione politica. In un’epoca che si definisce “liberale” e “pluralista”, la punizione di un artista per la sua nazionalità o per le sue presunte simpatie politiche rasenta il grottesco. La misura adottata è tanto ingiusta quanto meschina: si colpisce un uomo che dirige musica, non carri armati. Si zittisce una bacchetta, come se questa potesse essere scambiata per una baionetta.
Il Patrimonio musicale europeo
Valery Gergiev non ha fatto altro che interpretare il patrimonio musicale della sua nazione e dell’Europa intera. La sua arte parla alle emozioni, non ai Parlamenti; la sua direzione non ha mai provocato una vittima, né lanciato un proclama. Eppure, in nome di un moralismo a senso unico, il suo nome viene oggi cancellato dai cartelloni, come se la musica potesse essere colpevole per associazione.
Il paradosso è tragico quanto farsesco: gli stessi ambienti che si scagliano contro Gergiev per presunta “prossimità al potere russo” applaudono ogni Capodanno, dal Quirinale all’ultimo salotto televisivo, alla Marcia di Radetzky, composizione celebrativa di quel feldmaresciallo austriaco che, nel 1848, represse nel sangue i moti rivoluzionari italiani. Ma si sa: quando la musica è filtrata dal mito risorgimentale o dal valzer viennese, il sangue versato diventa folklore.
La censura selettiva
Questo doppio standard culturale non solo tradisce il vero spirito dell’arte – che è universalità, confronto, umanità – ma rivela anche un atteggiamento prepotente, quasi bullo, da parte di istituzioni e organizzatori che credono di poter riscrivere la morale globale a colpi di censura selettiva. Punire un artista non per ciò che fa, ma per ciò che si presume egli rappresenti, è un abuso ideologico, oltre che una triste dimostrazione di ignoranza.
È tempo di rivendicare la separazione netta tra cultura e politica. La musica non è un campo di battaglia, ma un ponte tra popoli. Valery Gergiev, nel suo silenzio artistico forzato, grida più forte di quanto facciano
i suoi detrattori.
Gianluca Mingardi
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