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Un viaggio all’inferno: Un tè tra le bombe

Redazione di Redazione
23/09/2024
in Archivio 900
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Un viaggio all'inferno: un tè tra le bombeUn viaggio all’inferno: Un te tra le bombe – Incredibilmente, mentre l’adrenalina mi scorre a fiumi, il comandante della nostra scorta ci invita a sederci per una tranquilla tazza di thé.

Un “tea-time” nel cuore della guerra mi sembra pazzesco. I combattenti saharawi interrompono la loro attività bellica e si uniscono a noi a sorseggiare l’ottimo “green tea”, omaggio della China Popolare unitamente ad un ingente quantitativo di armi di ogni tipo mirante a contrastare l’influenza sovietica in atto.

La bevanda calda si sorseggia seguendo un rituale antico che la vuole distribuita in tre passate. La prima, più forte, per ricordare come possa essere amara la vita; la seconda, ricavata aggiungendo acqua alla teiera e quindi più leggera, per rammentarsi del piacere dell’amore mentre la terza, quasi trasparente nel sapore, per celebrare la dolcezza della vittoria, quando sarà e se mai sarà, penso dentro di me; poiché una guerra di logoramento non ha mai un esito certo su chi mollerà per primo.

Roba per turisti

Vero che i Saharawi hanno poco da perdere ma altrettanto vero è che sono pochi mentre il Marocco dispone di risorse umane e logistiche immense con, alle spalle, il supporto massiccio della Casa Bianca e d’Israele, oltre che di molti stati europei nonché di quel Sud Africa che ha un conto in sospeso con l’Algeria per l’aiuto dato a Mandela.

Tutto si svolge come per gioco, in un’atmosfera irreale. Stai lì a bere il thè mentre intorno ti piovono le cannonate: “roba per turisti” penso dentro di me per impressionare gli osservatori occidentali. Mi sbagliavo: questa era la norma di una strana guerra in cui, la costruzione del muro e le sue implicazioni strategiche, aveva stravolto le regole di quella che prima era stata una classica guerra di movimento, fatta d’imboscate a convogli in transito; attacchi a guarnigioni isolate; feroci bombardamenti aerei e sporadici scontri fra mezzi blindati.

Ora il nemico si era asserragliato, lasciando volutamente l’iniziativa a forze scarne e male armate ma fortemente motivate e determinate. Nonostante questo, i combattenti saharawi sapranno pungere in maniera sempre più velenosa ma mai determinante, contando sul logorio delle forze marocchine, costrette ad operare in condizioni ambientali difficili e sul fatto che molti dei soldati presenti erano di leva e quindi scarsamente motivati.

La muraglia marocchina

Il Muro, ripeto lungo 2.000 km, fu costruito, su consiglio degli esperti militari americani ed israeliani, con lo scopo di poter garantire ai marocchini il controllo delle ricche aree costiere ed il perdurare dello sfruttamento degli ingenti giacimenti di fosfati di Bu Cra. al suo interno. Si tratta di un terrapieno di circa tre metri di altezza, fatto di sabbia e rocce, messe insieme dall’azione contrapposta di due bulldozers; a questo andranno aggiunti, nella parte frontale, reticolati di filo spinato e campi minati mentre, alle sue spalle, fossi anticarro, punti di artiglieria medi e pesanti, piazzole di missili anticarro, centri di stazionamento e rifornimento di truppe meccanizzate per la “reazione rapida”, in caso di sfondamento in uno o più punti.

Vanno aggiunte postazioni di radar e sensori infrarossi, la cui azione combinata poteva rilevare movimenti di mezzi e uomini, entro il raggio di 30km. Lungo il muro, imitando il Vallo di Adriano, vi erano poi piazzole di avvistamento ogni 700 metri e centri di fuoco ogni 2,5 km. Tutti i capisaldi erano interattivi, capaci cioè, in caso di attacco, di fornirsi aiuto reciproco con il supporto immediato di una forza meccanizzata, in permanente stato di allerta, alle loro spalle.

Gli USA non badano a spese

Al di sopra di questo imponente apparato difensivo, l’osservazione aerea da parte di Hercules-130 muniti di sistema SLAR (Slide Looking Airborne Radar). Uncle Sam non badava a spese pur di arricchire la propria industria delle armi ed avere facile ed economico accesso a quei fosfati che costituiscono la materia prima per i fertilizzanti, di cui l’agricoltura americana ha ingente bisogno e la fabbricazione di esplosivi.

Aggiungiamoci la probabile presenza di giacimenti di uranio ed altri minerali rari per avere il quadro completo, di cosa sia lo sfruttamento neocapitalista.

Certo, di fronte ad un apparato bellico di queste dimensioni, il concedersi una pausa per una bevanda calda e prendersela calma non era poi così fuori posto.

Sostanziale stallo a prezzo carissimo

Da come la vedevo io, la guerra era in una condizione di totale stallo militare nonostante i proclami di vittoria che sentivo circolare: i Saharawi non potevano permettersi un’offensiva risolutiva per mancanza di truppe corazzate e supporto aereo adeguato mentre i soldati regolari del Marocco preferivano rimanere fermi piuttosto che avventurarsi fuori dal perimetro difensivo, facevano eccezione alcuni sporadici nuclei di forze speciali.

La guerra l’avrebbe vinta chi avrebbe resistito più a lungo, contando sulla maggiore usura della parte avversaria. Nonostante il predominio tattico il Marocco era quello che aveva più da perdere nell’attesa, con un 40% del Pil investito in spese militari ad ulteriore erosione di un’economia interna non proprio florida. A questo, sotto l’aspetto del discredito militare, particolarmente sentito in ogni Monarchia autoritaria, andava aggiunta la vergogna delle diserzioni di massa, da parte dei soldati di leva che preferivano venire a fare i “vu cumprà” in Italia piuttosto che combattere fra le sabbie roventi di una terra assolutamente inospitale in cui, vita e morte, perdono di significato al cospetto di un paesaggio senza tempo, uguale da sempre ove ogni metamorfosi, associata allo scorrere del tempo, si annulla.

Non rinunciare alla speranza

Queste riflessioni, unitamente ai dubbi sull’esito “vittorioso” della guerra, li tenni ovviamente per me se ad un soldato gli togli la speranza è come averlo disarmato.

Finita la pausa, il ns gruppo si separò da quello dei combattenti per risalire sulla jeep e prendere la strada del ritorno fra il sollievo di mia cugina e l’indifferenza del giornalista Rai, ragazzo decisamente coraggioso che stava facendo bene il suo lavoro. Io invece non ero affatto tranquillo, certo che il peggio potesse ancora avvenire, uno sguardo d’intesa con Kandut me lo confermò.

Con la scusa di fumarci una sigaretta ci allontanammo a parlare, confermando la mia sensazione. Mi disse che i marocchini potevano contrattaccare in ogni momento e trovarci isolati. Poi l’osservazione aerea in corso, anche se non visibile sopra di noi, era una minaccia da non sottovalutare, fatale se fossimo stati individuati allo scoperto cosa che, in un deserto, non è difficile esserlo, specialmente se a cercarti è un velivolo con capacità di rilevare oggetti in movimento a grande distanza.

Timore d’imboscate

Ma la cosa che lo preoccupava di più era che potessimo finire in un’imboscata, essendo prassi che i Marocchini inserissero dei commando per intercettare quelle truppe in ritirata che si presentassero isolate. Quindi aggiunse, io guido mentre tu stai con gli occhi ben aperti, io cercherò di guidare lontano da dune od altri possibili nascondigli ma tu stai sempre pronto; prendi l’AK che sta dentro la coperta e fammi vedere quello che sai fare.

Srotolo la coperta, prendo l’arma, la carico e scarico un paio di volte per riprendere quella manualità d’uso che ho ovviamente perduto nel tempo. Kandut apprezza il mio vuotare il caricatore, pulire ogni singolo proiettile da eventuali grani di sabbia per poi reinserirli controllando che la molla risponda bene.

Mi fa cenno di “ben fatto”. Quindi risaliamo sulla Jeep con io posto sul cumulo di coperte che si trova sul retro, in modo da tenere una posizione elevata e così avere una visuale più nitida.

Mia cugina mi guarda atterrita, Paolo più confidente. Nervosismo a parte non succede niente di pericoloso, nessuno parla anche perché abbiamo testa e volto coperti da una kefiah per proteggerci dalla sabbia e dal sole che ti martella implacabile.

Accampati nel deserto

A sera, con le ossa rotte da ore passate fra sobbalzi continui, ci fermiamo in prossimità di una piccola valle con cespugli ben in lontananza poiché potrebbero nascondere scorpioni o serpenti velenosissimi come la vipera del deserto. Per sicurezza scaviamo un fossato tutto intorno per poi cercare arbusti secchi per accendere il fuoco.

Il nostro cuoco, ancora una volta, supera sé stesso, recuperando il pane cotto, sfornato a pranzo ed inventandosi una zuppa dove dentro mette tutto quello che ha sottomano mancano solo le lucertole: in tempi normali sarei inorridito ma la fame si fa sentire ora che la tensione si è allentata e ci sentiamo tutti più sicuri.

Per non lasciare niente al caso ed abbassare troppo la guardia, con Kandut stabiliamo dei turni di guardia.

Quando tocca a me ho l’impressione di entrare nel pieno cuore di un sogno mai immaginato come possibile: una sigaretta in mano, un fucile carico nell’altra, gli occhi che si muovono attenti e poi quel cielo incredibile di un colore mai visto prima, trapunto di stelle che sembrano talmente vicine da poterle toccare.

La notte di guardia

Era stata una giornata dura ma ne era valsa la pena. E poi quel silenzio surreale dove finalmente mi sembra di ascoltare il sussurro degli Dei o magari di quel Dio che non sono mai riuscito ad incontrare in una chiesa.

Ho la sensazione di essere avvolto in un mondo magico, vorrei che quella notte non finisse mai.

Una notte che mi riconcilia con l’eternità della Natura e del Creato. Poi arriva il cambio e piombo in un sonno profondo, avvolto in quel sacco a pelo che sembra un’armatura distesa su di una nuvola di sabbia.

L’alba giunge lentamente, in un gioco di luci colorate che mi stordisce per la sua bellezza cromatica per poi tingersi improvvisamente di un rosso intenso carico di drammaticità ed alla fine il ritorno di quel sole implacabile che toglie ogni poesia allo splendore della notte appena trascorsa.

Altra giornata di viaggio; altra sabbia da ingoiare; altra tensione da contenere prima di raggiungere la relativa sicurezza dell’accampamento fortificato. Qui e la arrivano e partono fuori strada equipaggiati con mitragliatrici pesanti, carichi di gente armata dallo sguardo determinato.

L’accampamento vive nell’ombra dei tanti teli mimetizzati che lo rendono difficilmente visibile dall’alto, protetto da veicoli su cui sono montate delle armi binate puntate verso il cielo e da soldati con in spalla i lancia missili Strela.

Inutile dire che tutto questo mi affascina anche se dovrei pensare anche a chi, da una parte e dall’altra, sta cadendo in quel momento. Poiché fuori dalla sua mistica, la guerra è essenzialmente morte e distruzione cosa che non le nega un suo fascino intrinseco, altrimenti l’umanità non sarebbe perpetuamente a combattersi.

I Sahalwi attaccano

È il 12 ottobre, i combattimenti più duri stanno avvenendo in una località chiamata Aura, il cui tratto di muro è stato sfondato per una larghezza di 17 km ed una profondità di 20. Le perdite marocchine verranno conteggiate in 190 caduti; 150 feriti e 36 prigionieri.

Fra il materiale distrutto, carri armati americani M48; blindati sudafricani Ratel ed autoblindo francesi AML 90.

4 giorni prima, azione analoga nella zona di Guelta Zemmur con forti perdite nemiche, fra cui il colonnello comandante della brigata d’intervento rapido. Muro anche qui sfondato per 10 km in larghezza e 25 in profondità. Ingente il materiale catturato o messo fuori uso.

La sera del nostro arrivo, succede qualcosa di decisamente inaspettato; attorno ad un radio che gracchia in un arabo concitato, un folto gruppo di combattenti si lascia andare ad urla e canti in piena atmosfera da tifo da stadio. Sembra di assistere alla radio cronaca di una partita in cui la squadra del cuore stia vincendo. Mi avvicino incuriosito, si tratta si di una radio cronaca ma delle fasi finali degli scontri ad Aura, iniziati il giorno prima ed ora in fase di conclusione vittoriosa; lo speaker non è Carosio o Ciotti ma il comandante che ha diretto l’attacco.

TIS: this is africa

Perplesso m’interrogo su quanto sia vero l’acronimo TIS: this is Africa. Nel senso che l’impossibile, in questo continente, è in realtà sempre possibile; fuori da ogni logica in cui, noi europei, siamo abituati.

Il giorno dopo, 13 ottobre, rifacciamo i bagagli e prendiamo la via del ritorno verso una doccia che mi pare un altro sogno da realizzare: in una sorta di viaggio trionfale; è stata dura, complicata, pericolosa ma ne è valsa tutta la pena. Mi rimarrà come l’Avventura della Vita: quella più intensa, quella impossibile da dimenticare anche se, fisicamente, sono ridotto ad uno straccio.

Smagrito, disidratato, la pelle scottata, lo sguardo attento verso il nulla, il dito su di un grilletto con Kandut che mi rivolge un sorriso di assenso che mi riempie di orgoglio: non l’ho deluso e questo mi ripaga di tutta la stanchezza che mi porto addosso.

Il viaggio di ritorno

Il viaggio all’inferno si avvia alla sua conclusione, il ritorno sarà una passeggiata a confronto.

Alla Reception veniamo accolti come degli spettri che sono tornati dall’al di là, fra mille sorrisi, misti di curiosità, invidia ed ammirazione. Esausti, ricoperti di sabbia ed io con quel fucile ancora in mano che, essendo diventato un naturale prolungamento del braccio, mi sono scordato di nascondere sotto le coperte. Chiedo a Kandut se posso ripulirlo prima di riconsegnarlo, seguendo una mia prassi del passato.

Mi dice va bene e così faccio; smontare un AK è un gioco da ragazzi, basta premere un pulsante sul retro della culatta ed il castello viene via da solo.

Pulisco pezzo per pezzo, proiettile per proiettile e lo riconsegno a chi mi ha dato la fiducia d’imbracciarlo.

Nel guardarmi allo specchio, chiuso ora nei miei jeans ed una maglietta firmata; ben ripulito e sbarbato, mi viene il dubbio se io voglia veramente questo ritorno alla normalità occidentale o se non preferisca il fantasma che mi sono messo alle spalle, nelle cui spoglie ho lasciato i resti di un sogno, uno dei pochi che sono riuscito a realizzare.

Il tempo di riuscire a telefonare a casa; sedermi a tavola per un pasto che mi sembra da gourmet e poi l’ultima serata sotto un cielo stellato che sembra rubato da un film animato di Disney, tanto è luminoso, affascinate, misterioso, pieno di vita, per poi subire l’assedio di domande da parte della ragazza di Senza Frontiere: “dai raccontami tutto”, per poi scuotere la testa e dirmi “tu sei proprio matto”.

L’Addio

Ci diciamo addio come si userebbe fra amici di sempre, in realtà siamo solo due estranei, uniti da un sogno diverso che ci ha reso simili come solo in Africa è possibile.

Internet non esiste ancora, non ci sentiremo più; spero abbia trovato quella risposta esistenziale che cercava nella vita, non facile, che si era scelta. La mattina successiva, la Toyota blue ci riporta all’aeroporto di Tindouf; controllo bagagli e passaporto e poi il volo verso Algeri.

Un volo in cui ognuno di noi resta chiuso nel silenzio dei propri ricordi ancora tutti da mettere a fuoco.

Atterrare ad Algeri è un ritornare a quella normalità che ora mi va stretta, mi ci debbo riabituare in fretta e lo faccio davanti alle tre birre che mi scolo in un sorso nel ristorante in cui ci siamo fermati.

Vedere tutto in ordine, i camerieri in livrea, l’aria condizionata accesa, i cibi ben serviti senza mosche che girano attorno mi riapre le porte al mondo a cui realmente appartengono e dal quale non posso fuggire a lungo. Il fascino dei sogni è nella loro brevità, la maledizione del conformismo nella sua durata.

Il ritorno a Roma

Arrivato a Roma riprendo la mia vita normale mai dimenticando l’impegno d’onore che ho preso con la delegazione romana del Polisario. Certo a ripensarci uno di Ordine Nuovo a fianco di guerriglieri di colore, nel territorio più improbabile mi fa ritornare il sorriso: l’impossibile non esiste, basta crederci e prima o poi, la magia si avvera, ad un costo ovviamente.

Contatto la redazione di Raid che mi dice subito “mandami testo e foto” al resto pensiamo noi. Sul n.43 di Raid del maggio 1990, finalmente esce il mio reportage su ben 7 pagine.

Nel frattempo, ho scelto una delle mie foto più significative e l’ho trasformato in mille manifesti che, con l’aiuto dei camerati del Movimento Politico di Maurizio Boccacci, vengono affissi sui muri della Capitale. Inoltre, organizzo un altro evento pubblico con proiezione di diapositive ed intervento del Polisario. È un successo totale con i compagni che rosicano per un osso che si sentono levato di bocca.

Tra leggenda e fantasia

Anche, Alemanno, allora nella dirigenza del Fronte della Gioventù, mi contatta per saperne di più ed inizio un giro di conferenze, con supporto fotografico, fra sezioni del MSI ed una sorta di Campo Hobbit tenuto nel castello normanno di Santa Severa fra Roma e Civitavecchia.

Oramai a piazza Vittorio ero diventato legenda vivente, con Kandut che si era inventato un conflitto a fuoco, fra me ed i marocchini che pur potendo avvenire, la determinazione non mi sarebbe mancata, in realtà era pura fantasia.

Glielo feci presente ma lui rispose, serio: “mentre guidavo ti guardavo ed ho visto lo sguardo giusto. A me bastava. …Il resto aiuta la causa”.

L’assurdo diventa realtà con io “il Rhodesiano” che fa comunella con gente dalla pelle non bianca. A chi mi fa delle battutacce, rispondo “i guerrieri non hanno colore” e non era una contraddizione. In Rhodesia avevamo un esercito formato, al 70%, da soldati africani; come poi immortalerà Di Caprio, il Rhodesiano del film capolavoro “Blood Diamonds”, nella frase “in the same fox hole…blood has no colour”. Stessa attitudine in Sud Africa, sia pure tarda nei tempi, con la costituzione del mitico 32 btg, un’unità d’elite assoluta, formata interamente da soldati di colore con ufficiali, europei.

Il Polisario vittorioso viene venduto dall’ONU

Torniamo alla sede del Polisario di piazza Vittorio, di cui sono diventato di casa. Mi ringraziano di quanto sto facendo e mi annunciano che, con l’offensiva di Amgla, dell’8 novembre in cui sono riusciti a travolgere il muro per altri 25 km, la guerra si può ritenere conclusa avendo accettato l’intermediazione dell’ONU per una pace negoziata che prevede un referendum sull’autodeterminazione da tenersi entro due anni, sotto la supervisione dei caschi blue.

Nell’attacco sono morti 250 soldati nemici, fra cui molti paracadutisti del IV battaglione, un ‘unità speciale ed abbattuto un aereo Mirage, ciò ha convinto anche re Hassan IV del Marocco a trattare.

Sarà una pace finta, manipolata nei tempi per logorare il Polisario, per poi arrivare ad elezioni falsate a cui parteciperanno centinaia di migliaia di finti residenti marocchini per addomesticarne l’esito. Fra l’altro, per arrivare ai nostri giorni, la Spagna ha dovuto riconoscere la legittimità del Marocco sul Sahara Occidentale in cambio di un maggior controllo di Rabat sull’immigrazione clandestina a Gibilterra.

Nel mondo capitalista ogni cosa ha un prezzo.

Il commiato di Kandut

Conclusa la tregua Kandut viene richiamato in patria per assumere funzioni politiche; i guerrieri non servono più ora parlano le banche ed i comitati di affari; serve giacca e cravatta ed un lap top al posto dell’AK. Ci salutiamo, non mi vergogno a dirlo, con le lacrime agli occhi; entrambi sappiamo di aver perso, ma almeno ci abbiamo creduto.

Ho un fratello di colore, l’assurdo della nostra vita da eretici.

E qui finisce il mio racconto ove, con un pizzico di superbia, vorrei ricordare, a chi dovesse leggermi, che un Camerata di ON nel Sahara Occidentale dovrebbe essere motivo di riflessione per tutto il ns Mondo e segnare il percorso di una strada che dobbiamo saper rinnovare, capendo che, oltre al bianco e nero, esistono mille sfumature di grigio.

In realtà il mio rapporto con il Sahara Occidentale non finisce qui…ci ritornerò nel marzo del 2000 riuscendo a coinvolgere, indovinate chi? Giorgia Meloni…ma questa è un’altra storia.

Enrico Maselli

qui la parte prima

 

Tags: MaroccoOccidenteONUPolisarioSaharawi
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