Per trent’anni, come un mantra ripetuto con crescente fervore, abbiamo invocato “più Europa”. Ci è stato promesso un futuro di prosperità condivisa, di rafforzamento del nostro peso geopolitico, di un mercato unico florido e protettivo. Ma oggi, guardando il panorama industriale italiano, la domanda sorge spontanea e carica di amarezza: cosa abbiamo realmente ottenuto da questo incessante anelito di integrazione europea?
La risposta, purtroppo, si staglia con inquietante chiarezza: deindustrializzazione, impoverimento e un progressivo indebolimento di quel “saper fare” che ha reso l’Italia celebre nel mondo. Abbiamo assistito, impotenti, alla diaspora di aziende storiche, alla perdita di competenze produttive cruciali, a un lento ma inesorabile smantellamento del tessuto industriale nazionale.
La Giornata del Made in Italy
La recente celebrazione della Giornata nazionale del Made in Italy assume, in questo contesto, i contorni di una beffa, di un rituale stanco e privo di reale sostanza. Cosa c’è da festeggiare, ci chiediamo, quando a meno di ventiquattro ore di distanza apprendiamo la notizia dell’ennesima cessione di un simbolo della nostra identità, la Bialetti, a capitali cinesi? La Moka, un’icona indiscussa dell’italianità, non è più italiana. E questa non è una tragica eccezione, bensì l’ultimo nome inciso su una lapide che si allunga di giorno in giorno, testimoniando la nostra incapacità decennale di proteggere il nostro patrimonio produttivo.
La lista delle grandi aziende italiane passate in mani straniere è fin troppo lunga e dolorosa. Dall’abbigliamento all’alimentare, dalla chimica alle telecomunicazioni, dai trasporti all’energia, nessun settore sembra essere stato risparmiato da questa ondata di acquisizioni. Le conseguenze sono state puntualmente devastanti: delocalizzazioni che hanno desertificato interi distretti industriali, licenziamenti di massa che hanno spezzato il tessuto sociale di intere comunità, un abbassamento spesso drastico della qualità delle produzioni, sacrificate sull’altare della competizione globale e della logica del massimo profitto a breve termine.
La distruzione del benessere
La mancata produzione sul nostro territorio nazionale non è una questione meramente economica; essa incide profondamente sull’occupazione, sulla capacità di innovazione, sul benessere complessivo della nostra società. E a rendere il quadro ancora più desolante, molte delle holding straniere che oggi detengono marchi prestigiosi del nostro Paese hanno la loro sede legale in paradisi fiscali europei come Lussemburgo o Olanda, contribuendo in maniera irrisoria alle casse dello Stato italiano. Il loro apporto alla ricchezza nazionale si rivela, così, del tutto marginale, un ulteriore schiaffo a un sistema produttivo già in ginocchio.
In questo scenario di declino industriale, l’invocazione sterile di “più Europa” suona come una litania vuota, un autoinganno pericoloso. È tempo di un cambio di paradigma radicale. Difendere il Made in Italy non significa appuntare un’etichetta tricolore su prodotti realizzati altrove (“Named in Italy”), ma tornare a “fare in Italia”, a investire nelle nostre competenze, a proteggere il nostro ingegno, a creare un ambiente favorevole alla crescita delle nostre imprese.
La rinascita industriale italiana non è un’opzione, ma una necessità vitale per il futuro del nostro Paese. È un imperativo che deve tradursi in azioni concrete, in politiche coraggiose che invertano la rotta di questo trentennale declino. Altrimenti, la Giornata del Made in Italy continuerà a essere una sterile commemorazione di un “passato glorioso”, sempre più lontano e irrecuperabile.
Alfredo Durantini
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Buongiorno
Articolo molto interessante e desidererei sapere come e dove si possa trovare quello che lei menziona “la lista delle aziende italiane passate in mani straniere”