A parlare dell’8 settembre come del giorno in cui sarebbe morta l’Italia non era stato un fascista, ma Salvatore Satta, già nel 1948. Non era fascista neanche Renzo De Felice, il quale, alla fine del secolo scorso, diede nuova dignità storica a questa definizione, poi ripresa, con grande clamore di stampa, dall’antifascista Ernesto Galli della Loggia.
A opporsi pubblicamente a questa interpretazione della data fatidica – il cui senso è stato magistralmente riassunto dal personaggio interpretato da Alberto Sordi nel celeberrimo “Tutti a casa” -, Claudio Pavone, storico non certamente paragonabile, per valore scientifico, al grande biografo di Benito Mussolini e Carlo Azeglio Ciampi, il famoso iscritto alla Cgil del settore bancario – il governatore di Bankitalia amava mostrarsi in pubblico con la pin di quel sindacato sulla giacca -, il quale condivideva con Romano Prodi e Mario Draghi il tutt’altro che invidiabile record di massimo svenditore dell’economia nazionale agli stranieri.
La Destra italiana, all’epoca, era ancora distante dall’evoluzione da Msi-Dn in Alleanza nazionale, ma, quel dibattito storico, sociologico, culturale e politico al tempo stesso, vide la partecipazione delle migliori penne di quell’area politica, proprio capendone la funzione che avrebbe potuto avere – ed ebbe – per abbattere il recinto dell’arco costituzionale e preparare la strada per una stagione di inedito attivismo di quelle comunità di uomini e idee a lungo ghettizzate.
Se l’Italia era morta, l’8 settembre 1943, perché, spezzandosi l’unità nazionale ereditata dal Risorgimento, la società italiana sorta dopo la guerra era stata caratterizzata dalla divisione in blocchi, per lo più rispondenti a interessi stranieri; prendendo consapevolezza tutti insieme – eredi dei “vincitori” e dei “vinti” – di quello stato di inevitabile sudditanza conseguito all’esito della guerra mondiale, senza più attardarsi nello scambio reciproco di accuse e nel rimpallo delle responsabilità storiche, sarebbe stato possibile immaginare e lavorare per una nuova epoca, in cui l’interesse nazionale avrebbe dovuto ispirare l’azione di tutti i partiti che sarebbero arrivati al traguardo del nuovo millennio.
Il programma era ambizioso come mai ne era stato immaginato un altro nella storia repubblicana: un Parlamento e una società politica divisi sui modi, sui tempi e sugli strumenti, anche in modo radicale e antitetico, per raggiungere l’identico obbiettivo di una Nazione rinnovata, economicamente forte, indipendente in ciò che concerneva l’energia e le altre risorse strategiche e indispensabili nella contemporaneità, inserita da pari a pari, nel concerto internazionale.
E’ stata l’illusione, se non di un momento, di una stagione.
Anno dopo anno, pur avendo già raggiunto il traguardo del governo del Paese, proprio la Destra, che pure avrebbe avuto il maggior interesse a coltivare questo filone culturale, ha disertato il dibattito e, come i badogliani del giorno funesto, ha cambiato schieramento, affiancandosi a coloro che, in quel tradimento dell’Esercito, ai danni dell’Esercito e della Patria, pretendeva e pretende ancor oggi di scorgervi chissà quale positivo seme per il futuro dell’Italia.
Un voltafaccia ideale e ideologico, quello ancor oggi confermato da autorevoli esponenti della così detta “destra di governo”, che si è consumato, a sua volta, in una data precisa, o meglio, in 8 di settembre preciso: quello del 2008, quando l’allora presidente della Repubblica, il comunista Giorgio Napolitano, attaccò Iganzio La Russa per le parole, con cui, da ministro della Difesa, aveva parlato, nel solco della lezione appresa negli anni precedenti, dal palco di Porta San Paolo a Roma. Da qualche giorno, per altro, il dibattito politico era stato infiammato da una dichiarazione di Gianni Alemanno, per il quale, contrariamente a quanto Fini amava farsi attribuire d’aver detto, “il Fascismo era stato il male assoluto, ma un fenomeno molto più complesso”. La reazione del presidente di An fu feroce, mettendo a tacere tutte le voci dissonanti nel partito.
Sorvolando sugli anni successivi, per ragioni di brevità, e giungendo ai giorni nostri c’è qualcosa di “greco” – nel senso delle tragedie di Eschilo e Sofocle – nello sviluppo di questa contesa sulla storia patria e sugli effetti che una posizione o l’altra può determinare, nella vita di chi ha il coraggio di assumerla o in quella di chi ha imparato a conformarsi ai “detti”.
La Russa, almeno da tre anni a questa parte, non ripeterebbe più l’imprudenza di chiedere rispetto per coloro che, l’8 settembre 1943, nell’estremo tentativo di non far morire la patria, scelsero di combattere sotto il tricolore con l’aquila repubblicana: e, infatti, è il vicecapo di uno Stato perfettamente allineato ai desiderata di coloro che, sempre l’8 settembre del 1943, a Cassibile, erano seduti dall’altra parte del tavolo, vestiti delle loro migliori divise, mentre dettavano a un goffo Giuseppe Castellano, generale in anonimo doppio petto scuro, le loro pretese e condizioni che – pardon per il gioco di parole – condizionano ancora e pesantemente le nostre vite.
Gianni, invece, non ha mai cambiato opinione, sulla storia e sull’attualità di una Patria non ancora indipendente, non ancora completamente libera di scegliersi, ogni giorno, il proprio destino, non ancora sufficientemente sovrana economicamente, militarmente, politicamente. E, infatti, langue in galera, innocente di qualsiasi reato, solo per aver sbagliato a leggere l’orologio o per aver stiracchiato qualche giustificazione, ma solo per guadagnare un po’ di tempo per denunciare le follie delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente e per difendere gli interessi minacciati dell’Italia.
O tempora o mores, dicevano i latini antichi. Ma da oltre 70 anni il tempo è fermo all’8 settembre e il costume è ancora quello di Pietro Badoglio.
Massimiliano Mazzanti
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Quel giorno la Patria è stata svenduta ed è ancora offuscata dopo 82 anni. L’ignobile articolo 16 del Trattato di pace è ancora lì ad eterna vergogna per la nostra Nazione e finché non verrà rimosso il Popolo italiano ne subirà l’onta per le future incolpevoli generazioni.