Il professor Alessandro Volpi dell’Università di Pisa offre una lucida e preoccupante analisi sul suo profilo Facebook. La tanto sbandierata amicizia transatlantica? Una farsa. Siamo in piena guerra commerciale, e no, non è un’esercitazione con i soldatini.
Gli Stati Uniti, guidati dal buon (si fa per dire) Donald, hanno deciso che l’Europa, e l’Italia in particolare, sono il loro bancomat personale. Dazi al 10% come tariffa generale, 25% sull’automotive, 50% su acciaio e alluminio. Per capirci: le nostre esportazioni di acciaio negli USA sono passate da 900mila a meno di 250mila tonnellate. Un successone!
Ma non è finita qui, il 9 luglio si avvicina e con esso la minaccia di un ulteriore giro di vite, con dazi che potrebbero schizzare al 70%. E per i nostri prodotti agricoli, il cui export vale quasi 8 miliardi l’anno, si parla di oltre il 17%.
La ragione di questa “stretta amichevole”?
Semplice: gli USA hanno il portafoglio vuoto. Il costo del debito federale è diventato un incubo, e il “Big Beautiful Bill” (nome che pare uscito da un film di serie B), con le sue riduzioni fiscali per i ricchi, deve essere finanziato.
E chi paga? Ma noi, naturalmente! L’Europa, l’Italia in prima fila, destinata a svuotare le proprie tasche per tenere a galla il capitalismo americano. Non è forse questo il destino glorioso di una provincia dell’Impero?
Per il Professore il quadro è chiaro: gli Stati Uniti, in crisi profonda, stanno strangolando l’Europa. E la cosa più esilarante, se non fosse così dolorosa, sarebbe che l’Europa e, in particolare, il “fantastico governo italiano” (chissà se ridono anche loro mentre si prostrano) sembrano ben felici di farsi strangolare. Anzi, è quasi una gara a chi si genuflette con più grazia. Sarà per evitare il crollo del capitalismo stesso, oppure per pura e semplice “ottusità”, come la chiama il Professor Volpi.
Il risultato? Licenziamenti, stipendi da fame, inflazione galoppante. A farne le spese, ovviamente, saremo noi, popolo bue, mentre i grandi fondi trasferiscono i nostri risparmi oltreoceano e le industrie delle armi americane gongolano per le gigantesche commesse.
E qui casca l’asino: dov’è la sinistra? Quella stessa sinistra che, quando era al governo, ha contribuito a svendere quel poco di sovranità che ci rimaneva, prima all’Unione Europea e poi agli Stati Uniti.
Quei campioni di indignazione sociale, oggi, su questo fronte, hanno smarrito la voce, la dignità e forse anche il coraggio. Forse perché, in fondo, quando si trattava di svendere la residua sovranità non si sono tirati indietro, anzi. Abbiamo perso la guerra, siamo una colonia, una marca di confine di un impero che, a quanto pare, sta tirando le cuoia.
E noi? Noi festeggiamo il 4 luglio come fosse la nostra festa nazionale.
Che fare, dunque? Continuare a inchinarci con il sorriso sulle labbra, sperando che a Washington si accorgano della nostra devozione? O magari, ma è solo un’idea folle, iniziare a capire che, in combattimento, le ginocchia si piegano solo per caricare un calcio?
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