Il rinvio estivo del disegno di legge sul suicidio assistito, deciso da tutte le forze politiche in Commissione al Senato, offre una rara occasione di ripensamento. L’auspicio è che questa pausa serva non a rifinire un compromesso, ma a fermare del tutto un percorso pericoloso.
La maggioranza di centrodestra si è convinta che il proprio testo rappresenti l’unico argine alla deriva eutanasica imposta da giudici e attivismo ideologico. Ma si tratta di un errore gravissimo, strategico e di merito. Qualsiasi tentativo di normare il suicidio assistito – anche con l’intento di “limitarlo” – finirebbe inevitabilmente per legittimarlo, sia sul piano giuridico che nella coscienza collettiva.
Una legge, anche scritta con le migliori intenzioni, diventa timbro pubblico di approvazione morale. E questo vale in modo ancor più drammatico quando si tratta della morte. Perché ogni legge educa: ciò che lo Stato dichiara legale finisce per apparire giusto, persino auspicabile. Anche se si inizia parlando di “casi estremi”, si finisce inevitabilmente per trasformare l’eccezione in regola, e la regola in diritto esigibile per tutti.
Sul piano morale, poi, è fondamentale distinguere tra il non legiferare e il legittimare con una norma. Non intervenire può voler dire non agevolare una pratica; ma scrivere una legge significa riconoscerla e normalizzarla. È come un medico che, pur non potendo guarire, decide di non somministrare il veleno. Una legge sul suicidio assistito è invece l’equivalente morale di prescrivere quel veleno con il timbro dello Stato, rendendo Parlamento e cittadini corresponsabili.
Questo pericolo non è un’allucinazione ideologica: è lo stesso riconosciuto dalla Consulta nelle sentenze 135/2024 e 66/2025, dove si parla esplicitamente dei rischi di abusi e pressione sociale sui più fragili.
Il male minore?
E allora, ci si deve chiedere: qual è davvero il male minore? Non dovrebbe essere evitare che aumentino i suicidi?
Dalla sentenza 242/2019 sono stati autorizzati solo 8 casi in 6 anni. Una cifra irrisoria, che smonta la narrazione emergenziale. Ma se la legge passasse, la situazione cambierebbe radicalmente. Perché ciò che oggi è limitato ad alcuni casi diventerà inevitabilmente un “diritto” per chiunque. E negarlo ad altri apparirà presto “discriminatorio”.
Non dimentichiamo poi il contesto internazionale: solo 14 Paesi su 194 nel mondo hanno legalizzato l’eutanasia o il suicidio assistito. E questo, nonostante la potente propaganda pro morte che da decenni occupa spazi culturali, politici e mediatici. Un dato che dovrebbe far riflettere.
Per questo motivo, non esistono compromessi accettabili. Una legge sul suicidio assistito non è mai un male minore: è un salto culturale nel baratro dell’abbandono, in cui la vita fragile viene resa opzionale, negoziabile, revocabile. E chi oggi legifera con leggerezza, domani sarà corresponsabile delle conseguenze.
Pro Vita & Famiglia si mobiliterà con forza nei prossimi mesi per portare davanti alle Istituzioni i volti e le voci dei cittadini, delle famiglie, delle persone fragili e disabili che vogliono vivere. Di chi non chiede la morte, ma una società che non si volti dall’altra parte. Di chi lotta ogni giorno e non vuole che l’unica risposta al dolore sia la resa. Di chi ha bisogno di cure, presenza, dignità. Non di abbandono.
È ancora possibile fermarsi. Ma bisogna avere il coraggio di farlo.
Toni Brandi, Presidente di ProVita & Famiglia
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