I dati che si impongono alla considerazione di chiunque voglia intraprendere un discorso non improvvisato sulle prospettive le quali, in un avvenire ragionevolmente prevedibile, potrebbero competere alle nazioni nel vacillante contesto geo-politico dell’Europa, si inquadrano in una cornice decisamente sfavorevole alle possibilità di una loro positiva e soddisfacente ripresa.
Le oscure avvisaglie che caratterizzano la stentata e larvale sopravvivenza delle entità miseramente retrocesse allo stadio di confuse e rudimentali agglomerazioni collettive, riproducono e riassumono, su scala geograficamente ridotta, il declino di un continente percorso da laceranti conati di suicidio.
Le disarticolate società “nazionali”, corrose da una progressiva spoliazione delle loro legittime autonomie e vegetanti sotto la pressione intensiva di una deliberata immigrazione selvaggia, divengono promettenti e lucrose riserve destinate a soddisfare le meschine ambizioni di una politica deteriore, pervasivamente dominata dalla cupidità accaparratrice di una casta di mercanti e di usurai senza scrupoli.
In tal modo, il processo scaturito dalla volontà di annullare la concretezza delle patrie in uno scomposto e uniforme amalgama multietnico, si compie in un esito accuratamente previsto e rigorosamente obbligato: il rarefarsi o, più esattamente, lo scomparire degli ectoplasmi che la destra democratica vanamente e caparbiamente si pregia di qualificare come “nazioni” nel grigio anonimato di un cosmopolitismo bastardo.
In ciò è dato riconoscere il prodotto del legame organico tra la democrazia e le concordanti espressioni del materialismo moderno che, per la sua costituzionale sordità alle esigenze dello spirito, altera la forma originaria dei popoli in un universo artificiale, escludente ogni valore non eguagliabile alla spersonalizzante astrattezza delle procedure elettorali o del calcolo economico
Se le osservazioni precedenti rispondono a verità (e ci pare che non sussistano ragioni persuasivamente valide a rigettarne la fondatezza), si pone inevitabilmente l’urgenza di rispondere ad un dilemma, dalla cui soluzione potranno derivare le linee di una politica concepita in difesa e attuazione di principi, non assoggettabili alla logica degradante dell’ affarismo demo-capitalistico: la pertinente polemica condotta dai nazionalisti italiani nei primi decenni del novecento contro le astrazioni del costituzionalismo borghese consente di riproporre in termini immutati le loro posizioni, o rende piuttosto necessario ripensarle e valutarle in base agli indirizzi di un pensiero integralmente cattolico?
La funzione apprezzabile assolta dal nazionalismo nel contrastare la degenerazione della patria attraverso l’azione destabilizzante della lotta di classe o dello scontro tra i partiti, non può né deve far dimenticare le sue tare e insufficienze, geneticamente connesse al tramonto della Cristianità.
Il rafforzamento degli Stati nazionali può considerarsi al tempo stesso causa ed effetto del venir meno della civiltà tradizionale del Medioevo; il complesso delle diverse realtà territoriali e istituzionali che vi si formarono, trovava adeguato riconoscimento giuridico in un ordine sopranazionale, dinamicamente sorretto dalla tendenziale convergenza tra l’inderogabile vocazione missionaria della Chiesa e la poderosa tensione costruttiva dell’impero.
I particolarismi nazionali, progressivamente emancipatisi dalla giurisdizione delle potestà universali del Medioevo, si assestarono gradatamente in una pluralità di compagini statuali, potenziate dal ruolo sempre più attivo di una borghesia ostile agli antichi vincoli gerarchici e consuetudinari.
Il fazioso livore anti-romano delle sette “riformate” , i fasti della Francia giacobina che decretò il genocidio del popolo vandeano, colpevole di non assecondare la sua follia devastatrice, la preponderante influenza massonica sul compimento del progetto “risorgimentale “, testimoniano come il mondo moderno sia caratterizzato dal delinearsi di una crescente centralità politico-ideologica del concetto di nazione: in esso, infatti, si intese valorizzare il centro necessaria per un ribaltamento dei tradizionali canoni etici e religiosi.
Avvilendo la cultura a vanitoso compiacimento intellettualistico e dimenticandone la fondante dipendenza dalla sacralità del culto divino (secondo il magistero spirituale di Attilio Mordini), sulle nazioni sviluppatesi nel quadro anti-universalistico dell’evo moderno incombe il dolente destino di soggiacere alla bassezza e alla promiscuità dell’internazionalismo plutocratico.
Non stupisce che nella “serva Italia” contemporanea, all’idea di patria si sovrappongano confuse e diffuse degenerazioni qualunquistiche, care ad un conservatorismo ignavo, ben disposto a inserire, in una inclusiva quanto grottesca rappresentazione pseudo storica, Dante e “Bella ciao”.
Approfondendo il prezioso “anelito tradizionalista” che Elias de Tejada ravvisava nel fascismo, la nazione, sottratta alla “opposizione schizofrenica tra la destra delle mitologie etniciste e la sinistra delle attrazioni mondialiste” (Piero Vassallo), potrà conferire un deciso impulso realizzativo al plurisecolare patrimonio civile che dal Verbo divino riceve il suo valore perenne.
Paolo Rizza