A scuola con il niqāb, arriva la legge antivelo? – A dieci anni a scuola con il niqāb, il velo islamico che lascia scoperti solo gli occhi.
No, non siamo in un paese islamico ma in Italia.
La bambina, immigrata di seconda generazione e nata in Italia, frequenta la quarta elementare e proviene da una famiglia musulmana di origine africana.
Come segnala Pordenone Today, la sua presenza a scuola con addosso il niqāb ha portato l’intervento della sua maestra, la quale, in qualità di pubblico ufficiale, ha interrotto la situazione.
La docente ha, infatti, chiesto alla bambina di togliere il velo per poter svolgere le lezioni con serenità e in modo proficuo.
L’alunna ha obbedito e da quel giorno si è recata a scuola a volto scoperto.
Non è la prima volta che in questo istituto si verificano casi del genere.
Infatti, le famiglie costringono le figlie a indossare il niqāb sin dalle elementari. La decisione della docente ha trovato l’appoggio di diversi politici: dalla Lega al Pd.
Il senatore pordenonese Marco Dreosto, dal 2020 segretario della Lega per il Friuli-Venezia Giulia, ha parlato infatti di fatto inaccettabile.
Della stessa linea anche la segretaria regionale del Pd Caterina Conti: nascondere il volto delle donne, fin da bambine, significa togliere loro la dignità di persone, renderle cose sottomesse alla potestà degli uomini, ha dichiarato.
Una palese violazione della Costituzione
L’Ufficio Scolastico Regionale del Friuli-Venezia Giulia, invece, ha assunto una posizione più conforme al politicamente corretto: “L’insegnante ha certamente agito in buonafede ma è opportuno che riconsideri la sua decisione”, è stato questo l’invito della direttrice generale Daniela Beltrame all’insegnante che ha osato far rispettare un principio fondamentale della Costituzione: l’art 3.
Una disposizione che, infatti, riporta a chiare lettere il principio di uguaglianza: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso.
Principio questo ben lontano da indumenti che coprono le donne dalla testa ai piedi, a maggior ragione se bambine, solo perché donne.
La direttrice, per dar maggior credito alla sua posizione, ha fatto notare altresì l’assenza di una norma specifica che vieti il velo integrale tra i banchi.
Per questo motivo, secondo la Beltrame, le scuole devono favorire l’inclusione nel rispetto delle differenze anche di abbigliamento.
Il travisamento del volto
Per il momento, infatti, nel nostro ordinamento vige solo l’art 5 legge 152 del 75: È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo.
Buchi normativi e osservazioni che rendono ancora più fondato un intervento legislativo su questa problematica.
Proprio come sostenuto dal senatore leghista una cosa è la libertà religiosa, un’altra invece è il fondamentalismo religioso imposto su bambine innocenti» ricordando come Francia e Belgio abbiano già vietato il niqāb nei luoghi pubblici e anche l’Egitto, paese musulmano, ne abbia vietato l’uso a scuola.
Arriva una legge antivelo?
Pertanto, Deostro ha annunciato di voler presentare un’iniziativa (di legge, ndr) in Parlamento in questo senso il prima possibile.
Lo stesso vale per la segretaria regionale del Pd Caterina Conti: si può ragionare su leggi che facciano chiarezza su fenomeni nuovi e in espansione, ma prioritario è il lavoro da fare sull’integrazione contro qualsiasi ghettizzazione, dove attecchisce l’integralismo, ha sostenuto.
Interventi legislativi la cui urgenza trova il suo amaro fondamento in uno scenario in cui la situazione sta sfuggendo di mano.
Basti pensare a quanto è emerso lo scorso ottobre a Monfalcone (Gorizia), dove gli effetti del radicalismo islamico si manifestano in modo sempre più incisivo già nelle scuole, con bambine che vanno a lezione col burqa.
Il caso di Monfalcone
A Monfalcone, infatti, l’alta percentuale di cittadini di fede islamica – più del 33% – ha reso il Comune un luogo dove a sentirsi stranieri sono proprio gli italiani.
Una situazione disastrata e amaramente confermata dallo stesso sindaco Anna Maria Cisint: queste persone non danno l’impressione di volersi integrare, ma pretendono invece di vivere come se fossero nei loro Paesi di origine, ha dichiarato.
La crociata del sindaco Cisint
Uno scenario di mancata integrazione che degenera a causa della predicazione radicale di alcuni imam del territorio, in quanto rafforza la severa applicazione di alcune norme previste dalla sharia, ossia la legge islamica dettata da Allah e quindi ritenuta intoccabile.
Già a scuola si capisce come la cultura islamica preveda un diverso trattamento per le donne. Le famiglie sono disinteressate alla formazione scolastica delle bambine, tanto è vero che a una certa età – che loro ritengono adeguata al matrimonio – le ragazze vengono tolte dalla scuola per essere inviate ai Paesi d’origine. Ai maschi invece viene concessa molta più libertà, aveva dichiarato a ilGiornale.it il sindaco Cisint.
Questo accade in un Comune dove la percentuale complessiva di stranieri/non italofoni a scuola (dall’infanzia alle medie) ammonta al 64%. Oltre la metà. Arrivando addirittura al 90% in alcune specifiche classi.
Dati che in un Comune di 27mila abitanti, come quello goriziano, hanno un impatto devastante: l’incidenza dei numeri fa tanto e crea anche situazioni inconcepibili. In una classe prima, ad esempio, ho saputo che la maestra voleva far disegnare l’immagine di un cane, che tuttavia è considerato un animale impuro dagli islamici. Un bambino musulmano si è opposto. Quindi tutta la classe è stata costretta a evitare quell’esercizio, ha raccontato ancora il sindaco.
Ma le vicende a dir poco allucinanti non sono finite.
Sempre il sindaco di Monfalcone ha, infatti, parlato dell’episodio in cui un’insegnante di scuola media, agli esami di fine anno, non aveva potuto identificare una propria alunna, per via del burqa.
Non dimentichiamo Saman Abbas
Tutto questo succede in un’Italia dove, purtroppo, non sono mancati casi simili a quelli di Saman Abbas, la diciottenne di origini pakistana, assassinata nel 2021 dai familiari perché si era opposta al matrimonio combinato con un cugino in patria: il corpo della giovane fu ritrovato il 18 novembre 2022 in un casolare abbandonato.
Un crimine abominevole che ha portato la condanna all’ergastolo dei genitori (la madre è ancora latitante), mentre allo zio sono stati inflitti 14 anni di carcere.
Uno scempio familiare che continua ad avere una sua recidiva anche se, fortunatamente, con un finale ben diverso da quello della povera Saman.
Le spose bambine
Vicende che riaprono una piaga umana e sociale, quella della sposa bambina. Un fenomeno che in Italia continua ad avanzare.
Questo secondo i dati rilevati dal ministero dell’Interno dall’entrata in vigore del Codice rosso: la normativa contro la violenza di genere che, per di più, ha introdotto il reato di costrizione o induzione al matrimonio.
Complessivamente, negli anni dal 2019 al 2021 sono stati rilevati 35 casi di matrimoni forzati: 7 del 2019, 8 del 2020 e 20 nel 2021.
Un aumento che può essere dovuto sia alla più diffusa conoscenza della norma che a una maggiore propensione al suo utilizzo e alla denuncia, facendo così emergere una piaga silenziata per troppo.
L’85%, secondo questi dati, per quanto ancora parziali, riguarda le donne, di cui un terzo minorenni, e prevalentemente di origini straniere.
I numeri del Viminale
Le regioni settentrionali sono quelle in cui vi è la maggiore concentrazione di questo crimine. Si sta parlando in particolar modo dell’Emilia-Romagna e Lombardia.
Secondo i dati del ministero dell’Interno relativi alle vittime straniere (il 64%) emerge che la nazionalità pakistana è quella prevalente (57%) poi quella albanese (10%) seguono (con un caso ciascuno) India, Bangladesh, Sri Lanka, Croazia, Polonia, Romania e Nigeria.
Dati e vicende che dimostrano il fallimento di un’integrazione improntata sul buonismo anziché sul buon senso e di conseguenza la necessità di un sistema normativo serio.
Nemes Sicari
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