Reportage alluvione Emilia – Romagna

Reportage alluvione Emilia - Romagna
Reportage alluvione Emilia – Romagna

L’esordio che Milan Kundera scelse per il suo romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere è l’idea, il concetto di nietzschiana memoria della ciclicità della vita, una concezione che il filosofo tedesco traspose dalla cultura ellenica inserendola definitivamente nel pensiero moderno, incastonandola lì, e come un tarlo iniziò il suo lento lavorio, gravandone così ulteriormente il fardello con la consapevolezza che l’intera umanità aveva fatto ingresso in un’epoca storica concettualmente difficile e complicata.

Quel movimento circolare degli eventi della vita, i quali si riproporrebbero secondo una costante, secondo il principio della ripetizione, sono le nostre vite, ognuna così come nasce, vive e muore, e così si riaffacciano sul palcoscenico dell’umana vita, in un teatro dell’assurdo, in una prospettiva del tutto contraria alla visione lineare della vita concepita ed elaborata dal cristianesimo, a quella linea retta dove corre l’escatologia, fino all’éskhatos, all’ultimo, alla fine dell’esistenza, al termine della vita terrena, dopo la quale nuove porte si aprirebbero ai nostri occhi, in una vita nuova, eterna. Definitiva. Nulla più si ripeterebbe.

Maggio 2023

Ma tra queste righe non vi è nulla di definitivo. Nessun sigillo conchiude la narrazione, nemmeno il trascorrere dei mesi, nemmeno il tempo è riuscito ad arrogarsi il diritto di porre fine a quanto è accaduto mesi addietro, in quel tanto lontano ma quanto mai vicino maggio del 2023.

Perché Kundera, Nietzsche e il concetto dell’eterno ritorno?

L’attinenza della citazione dell’incipit dell’autore ceco e di Nietzsche coincide con quanto è accaduto, di nuovo, nelle terre dell’Emilia e della Romagna, terre devastate più di un anno fa dalle violente piogge, dal fragore della natura, dall’incapacità dell’essere umano di prevenire, dalla incrollabile tendenza a farsi cogliere impreparato, così, ancora, come sempre, come accadde, come accadrà nuovamente, nella certezza della nostra debolezza di fronte alla ‘matrigna’ di leopardiana memoria, troppo cattivo il poeta di Recanati, e forse troppo duro nel suo giudizio verso la Natura, verso quest’universo che ci circonda, ci accoglie e molte volte ci respinge, ma senza cattiveria, senza rancore, poiché è il suo agire, è nella sua natura l’essere natura.

Azione scolpita nella pietra, incisa in una corteccia d’albero, in un ramo spezzato portato a largo dalla corrente, in una tegola scheggiata, in un mattone franto, in un auto accartocciata sbattuta ripetutamente dai turbinii dell’acqua in piena, in una storia infinita di devastazioni umane, sì, umane, poiché Lei, la Natura, non percepisce gli eventi come catastrofi, noi siamo nella calamità, è la coscienza umana a elaborane il concetto e il pensiero, ma per la Natura questo sconvolgimento è mero rivolgimento, coerente nello scorrere degli eventi, che tradiscono una canonicità del suo Essere e del suo agire, a lei non importa quale percorso imboccherà, le alternative sono infinite nel loro eterno ripetersi.

I ricordi

Questi che seguono sono alcuni stracci di ricordi che trascrissi in quei giorni di maggio del ’23, quando il cielo si adombrò, velando ogni spiraglio di luce possibile, impedendo il chiarore dei campi, delle foreste, dei vecchi casolari, impedendo il piacere del calore sul volto, quando il cielo riversò sulla terra una potenza distruttiva, indicibile, indescrivibile, che gli occhi poterono registrare, immortalare per sempre, al confine tra la vita e la morte, al confine tra la speranza e la rassegnazione, di fronte alla forza della natura, alle piene, agli argini oltrepassati, sfondati, brecce di terra zuppe di acqua sporca e contaminata dalla melma, dalla fanghiglia che intralciava e s’incagliava.

«Le prime luci dell’alba sono un ricordo, quell’arancione dai toni rossastri è quasi svanito, il sole che campeggiava all’orizzonte si mostra lentamente nella sua interezza, sempre più in alto. L’autostrada è deserta, poche e assonnate sono le macchine che ci tengono compagnia. Ai nostri lati verdeggiano i campi che luccicano di rugiada: il loro verde menta è così intenso che si riesce a immaginarne la freschezza nonostante la distanza. Vecchie cascine di campagna, isolate qua e là, spuntano come tanti cumuletti di terra lasciati da una talpa disordinata. Il tempo scorre e le parole scivolano fuori dalle nostre bocche senza difficoltà, parole di circostanza che nessuno di noi trattiene.

Massalombarda

Ormai Massa Lombarda è vicina e l’autostrada è un ricordo. In questo piccolo paese, sin dall’inizio degli eventi, da quando è iniziata l’inondazione di queste terre, è stato allestito uno dei tanti centri di accoglienza dentro la scuola elementare ‘Luigi Quadri’.

Una volta arrivati di fronte alla scuola scendiamo dall’auto, alzo lo sguardo verso la facciata dell’edificio e una leggera malinconia mi pervade: penso a quell’armonia di linee e di forme deliziose che avevo visto arrivando qua e che regnavano questa pianura contadina, penso al gusto e al sapore delle grandi case di campagna e ai suoi paesini di basse abitazioni e campanili di un’epoca estinta contaminati nel dopoguerra da un’estetica che non si può definire tale, devastati da quelle storpiature architettoniche di cemento e mattoni, proprio come questa scuola. Che peccato.

Mentre divago con la mente metto piede nel piazzale antistante e incontro i primi sguardi stanchi, pesanti ma sereni. Poco più avanti, quasi al centro del piazzale, ecco il gruppo della Croce Rossa militare a cui dobbiamo dare il cambio. Ci dirigiamo verso di loro.

Siamo arrivati da poco, eppure le persone ci accolgono con sorrisi e pacato entusiasmo. Una signora, immobile, in piedi, si volta verso di noi richiamata dal rumore dei nostri anfibi. Quando le passo accanto vedo che solleva leggermente gli spigoli della bocca in un sorriso interrotto sul nascere, allunga la mano come se volesse accarezzarmi il braccio e con un tono di voce sollevato misto a gratitudine dice: «I nostri angeli custodi».

Io la guardo e non dico nulla, accenno un sorriso senza fermarmi, ma quelle parole mi si conficcano nella gola e già sento un nodo. E mentre mi allontano penso: ‘Che imbarazzo… ma com’è possibile? Siamo appena arrivati…’.

La scuola

Ci dirigiamo verso l’entrata della scuola e appena fuori dalla porta d’ingresso c’è un signore seduto e assorto che, con il volto illuminato dalla luce del sole, mi fa un cenno accogliendomi con gli occhi. Quando entriamo, alla nostra sinistra troviamo allestita una lunghissima tavolata imbandita di ogni cibo e bevande: non manca nulla. Sul lato opposto, invece, vediamo altri banchi di scuola con i quali hanno organizzato un punto informazione della Protezione Civile locale.

L’atrio è frenesia allo stato puro. Ci sono bambini che corrono e giocano. Altri sono seduti sulle gambe dei nonni, delle mamme e dei padri che li abbracciano. Li consolano. Sì, consolare, è quello di cui hanno bisogno. Ci sono persone che spostano casse d’acqua, vestiti e giocattoli che vengono ammucchiati e sistemati all’interno della palestra adibita a magazzino.

Anziane e anziani che si riposano seduti: chi avvolto in una coperta e chi invece mostra ancora una certa tempra. E poi ci sono quelli immersi nella lettura di libri, forse nel tentativo di sognare altri mondi e distaccarsi da questa realtà che si è manifestata a loro nella sua potenza disgregatrice. In una violenta sferzata, nell’immagine stereotipata di un turco ottomano che, in preda all’ira, fende colpi di sciabola ovunque capiti e disgrega, spezza, separa il gregge (grègis), disperdendolo dall’unità sfilacciata.

Nell’atrio

Quando siamo al centro dell’atrio iniziamo a conversare con chiunque ci rivolge la parola, perché il desiderio di parlare è forte e lo si percepisce.

Mentre guardo i loro volti penso che in queste situazioni non sia consigliabile restare in silenzio, optare per una condizione di auto-chiusura, quasi claustrale. Questa scelta potrebbe risultare controproducente per sé stessi. Ma non tutti ragioniamo e reagiamo ugualmente, in questo stesso atrio ci sono persone che scelgono di elaborare anche interiormente la sequela degli eventi. Ad ogni modo, anche se decidono di non parlare con la bocca, comunicano con gli occhi, esattamente come quel signore seduto all’ingresso, al quale è bastato un cenno di sguardo per farmi sentire accolto e comunicarmi la sua gratitudine.

Ad un tratto, mentre osservo un bambino nell’intento di seguire un suo gruppo di amici che si dirigono nel cortile, sento come qualcosa che si adagia sulla giacca. Mi volto. È la mano di una signora sulla settantina, capelli brizzolati tirati all’indietro, occhiali di una montatura nera e lenti squadrate e spesse alla Filini.

Lei esordisce chiedendomi da dove veniamo e io rispondo “Bologna”. Sorride. Bologna la conosce molto bene, anche lei aveva prestato servizio nella Croce Rossa quando era giovane e aveva dei colleghi bolognesi. La nostra conversazione continua e a un tratto mi dice: “Adesso, però, sono io quella che sta dalla parte di chi dev’essere soccorso, gli stessi che un tempo aiutavo anch’io”.

Disarmati

È un’affermazione disarmante, perché sei consapevole che devi rispondere correttamente e con tatto, non vorresti e non puoi sbagliare, non possiamo permetterci passi falsi, in questi casi la sensibilità delle persone è tanto fragile quanto il gambo di una foglia in procinto di staccarsi dalla casa ramo al principio dell’autunno, basta una folata di vento e quella si lascia andare, per sempre, definitivamente, niente più, una scossa e tutto finisce, un fruscio e tutto termina.

No, non posso, non possiamo permetterci di essere quella folata di vento che staccherà quella foglia, che spezzerà la sensibilità di queste persone che hanno perso tutto, che le porterà a terra roteando, accompagnate dai flussi di corrente. Il nostro compito è tenere in piedi. Aiutare. E tutto questo mi attraversa la mente, in una sequela confusa e repentina, mentre tento di non risultare troppo arrogante in uniforme.

Assieme a noi sono gli infermieri della Croce Rossa, molti membri della Protezione Civile e tanti altri volontari che si sono messi al servizio spontaneamente come Spike.

Parliamo. Parliamo tanto. A un certo punto gli chiedo come si chiama e si presenta: “Mi chiamo Spike”. La scuola è stata organizzata nel miglior modo possibile, considerando l’eccezionalità dell’evento e i mezzi a disposizione. Spike arriva dall’Albania e vive in Italia da molti anni, ha cominciato a lavorare sin da subito, spendendosi come tutti, e le occhiaie, quel cerchio di un viola pallido, cominciano a intravedersi».

Conselice

«Arriva una chiamata. Qualcuno ha bisogno. Partiamo. Arriviamo dalle parti di Conselice, una delle località maggiormente colpite, dove l’acqua del Santerno ha invaso le sue strade, le vie, ed è ancora qui, a nascondere e bagnare le porte e le pareti delle case, pronta a diventare acqua stagna se non defluirà rapidamente.

Sì, potrebbe diventare un serio problema. Con il veicolo ci inoltriamo lungo le vie laterali, di molto sotto il livello della strada principale del paese e perciò ancora più sommerse dall’acqua. Andiamo avanti, lentamente, l’acqua è torbida, la visibilità è cieca, le gomme procedono, ma anche loro come noi non sanno cosa incontreranno.

È una sensazione orribile, ogni volta potrebbe essere un sussulto, come negli incubi quando scendiamo infiniti piani di scale e saltiamo ripetutamente tutti i gradini in uno slancio verso l’ultimo della lunga serie. Non sappiamo il motivo, ma ogni volta, spinti dall’istinto in questo folle volo senza ali, sentiamo il cuore strappato via, in un tuffo nel vuoto, e ci manca il respiro».

«L’ambulanza corre veloce e la sirena non dà tregua. La pianura che costeggia l’Adriatica è una distesa di acqua sconfinata, i campi o, meglio, questi specchi d’acqua si susseguono senza soluzione di continuità, all’infinito. È impressionante pensare a come l’acqua si è riappropriata di terre che un tempo le appartenevano e che l’uomo le aveva sottratto. Alcune case emergono da queste lastre metalliche come isolotti abbandonati, sopraelevati, costruite sopra questi bassi cumuli di terra, salvandosi così dall’acqua.

Solo desolazione

E in questo frangente, mentre corriamo lungo la statale Adriatica, penso a quanto è scioccante come passi tutto così velocemente davanti ai nostri occhi, senza pietà, solo desolazione e un silenzio disperato, muto, privo della voce che vorrebbe reclamare una giustizia che purtroppo non esiste.

Ma esistono gli sguardi. E sono gli sguardi di chi è consapevole di quanto e per quanto dovrà ancora rimboccarsi le maniche per continuare a spalare il fango via dalle strade, dai piani terra delle abitazioni, dagli scantinati, dai negozi e da ogni singolo angolo affinché non ne resti più traccia.

Sono tante le persone che dovranno ricostruire la trama che si è sfilacciata, e tra loro ci sono anche ragazzi e ragazze consapevoli di dover ripartire per iniziare un nuovo ciclo, per ricostruire quanto l’acqua ha portato via.

Sant’Agata sul Santerno

A Sant’Agata sul Santerno non ho visto soltanto dei giovani infangati. A Sant’Agata ho percepito il riscatto delle giovani generazioni come la mia, che hanno dimostrato di non essere affatto quella gioventù inerte e apatica, svogliata e inconcludente come troppe volte siamo stati descritti. Questa non è soltanto la rivincita di un popolo intero colpito, bensì è anche la nostra rivincita, nel nostro piccolo, verso chi ci ha dato per persi troppe volte.

Parlo a titolo personale, e penso che chi è stato lì non avrebbe reticenze nel confermare quanto sto scrivendo e quanto sto per scrivere.

In vita mia, come tanti altri, non avevo mai vissuto un’esperienza del genere né tantomeno visto con i miei occhi così tanta distruzione ma anche tanta tenacia, determinazione, serietà, caparbietà e voglia di ricominciare.

Difficile non restare

La verità è che quando ti trovi lì è difficile dire di no. È difficile non restare. Vorresti restare. Vorresti aiutare ogni singola persona. Vorresti essere di conforto per chiunque. Vorresti distribuire acqua a chiunque te ne chieda un sorso. Vorresti poter salvare ogni singolo oggetto andato distrutto, dalla credenza all’album di famiglia, dal quadro al libro.

Tutti gli oggetti, tutta una vita compendiata in quegli oggetti, vivi, corpi inerti a cui le persone hanno donato un’anima, il crisma della vita nel momento in cui hanno deciso di condividere il loro ricordo, la loro testimonianza con quegli oggetti.

Ebbene, questa, anzi, queste sono storie da raccontare. Questa è la storia di Spike. È la storia del signor Gino. È la storia di Hicham. È la storia di Youssef. È la storia del signor Atti. È la storia di Walid. È la storia di Giorgia. È la storia di Emily».

Riccardo Giovannetti

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